LA CANAPA A SOSTEGNO DELL'ECOLOGIA

LA CANAPA A SOSTEGNO DELL'ECOLOGIA

Vorrei introdurre questo articolo, citando una frase di un grande genio luminare del XX secolo, un uomo che possiamo ricordare sui libri di storia grazie alla sue numerose scoperte, nonché scienziato e uomo della fisica:
Il mondo è un bel posto e per esso vale la pena di lottare.” Albert Einstein.
Da questa significativa espressione, si può evincere come l’uomo e la natura si sentano strettamente legati e connessi tra loro, volgendo l’attenzione verso la tutela e il rispetto di ciò che Madre Natura ha voluto donarci senza alcun tornaconto. Purtroppo però l’uomo ha cercato sempre e solo di guardare i propri profitti ed i suoi interessi economici senza salvaguardare questo nostro, stupendo pianeta.
Tuttavia questa frase mi porta alla riflessione ponendomi davanti a semplici e forse banali domande.
La terra per molti è davvero un bel posto? Davvero cerchiamo la sua salvaguardia? Stiamo realmente lottando per la sua difesa? Lo stiamo già facendo?
Non credo. Sono più propenso nel credere che nel nostro piccolo ed in minima parte diamo il nostro contributo ma non siamo ancora cosi pronti e coscienti per iniziare un vero e proprio cammino verso un reale cambiamento ecologico.
Per rendere l’idea faccio un esempio: abbiamo accettato il fatto di dover fare la raccolta differenziata ma cosa facciamo realmente per diminuire l’acquisto di materiale indifferenziabile?
Non accettiamo le deforestazioni ma preferiamo non dare importanza quando acquistiamo del materiale non riciclato.
E per l’inquinamento dovuto allo smog e al riscaldamento globale? Quando acquistiamo un auto ad esempio, pensiamo quanto è il suo consumo a litro piuttosto che pensare ai danni che potrebbe infliggere all’ambiente.
E poi riflettiamo dicendo: ma se sono solo io a fare la differenza cosa cambia?
Eccome! Cambierebbe drasticamente tutto.
Ogni piccola azione generata da una causa porta ad un effetto, proprio come in una legge fisica, ed ognuno di noi può e deve fare la differenza.
Solo negli ultimi anni, grazie ad avanzati strumenti tecnologici, possiamo quantificare i danni provocati all’ambiente. Tanto vero che il quadro delineato dal rapporto IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) del 2014, al quale hanno preso parte più di 1.700 persone tra ricercatori ed esperti di tutto il mondo, è grave.
Hanno definito uno scenario che non fa che peggiorare, questo dovuto all’aumento delle emissioni di gas serra nei paesi in rapido sviluppo economico. Si presume che entro il 2030 sarà la soglia decisiva per abbattere la quantità di CO2 nell’atmosfera altrimenti i costi economici diventeranno insostenibili.
Questi costi di cui si parla sono dovuti al fatto che, se per esempio un terreno ormai è contaminato, bisogna agire con metodi di bonifica adatti per la de-contaminazione. Sicuramente metodi costosi data la preoccupazione. Bene. C’è un modo semplice ed economico, infallibile perché già utilizzato in passato: la coltivazione di canapa.
E qui apro una piccola parentesi dato che parleremo del posto in cui sono nato e cresciuto: la mia amata Puglia.
Questa bellissima regione purtroppo, ormai da diverso tempo, è nota dalla stampa e dai media come una delle regioni più inquinanti d’Italia e con la più alta concentrazione e diffusione di sostanze tossiche, altamente pericolose, d’Europa.
Di seguito voglio riportare quanto scritto in un articolo, alquanto interessante, de l’Espresso del 27 agosto 2012.
“… Non c’è solo l’Ilva: i siti considerati pericolosi sono più di 500. E tre sono nella lista nera d’Europa. Un disastro che uccide l’economia ma soprattutto le persone.
Inquinamento alle stelle, emissioni di CO2 da record, tracce di diossina nel latte materno, incidenza di tumori troppo alta vicino ai poli industriali.
L’agenzia europea dell’Ambiente lo scorso anno ha stilato una classifica delle industrie più “sporche” del Vecchio continente. Nelle prime cento posizioni ci sono cinque fabbriche italiane.
Tre sono in Puglia altre due in Sardegna. Se l’Ilva di Taranto è cinquantaduesima, la centrale termoelettrica dell’Enel di Brindisi è piazzata addirittura al diciottesimo posto.
Non è tutto: secondo gli studi dell’Arpa tra Foggia e Santa Maria di Leuca si contano centinaia di altri siti potenzialmente pericolosi. In tutto sono 468, di cui 70 di origine industriale, 145 discariche, 11 luoghi a rischio contaminazione da amianto.
Taranto è il caso più devastante…in 13 anni di osservazioni, che vanno dal 1998 al 2010, ricorda Biggieri, sono attribuibili alle emissioni industriali ben 386 decessi. Circa 30 l’anno. Un eccidio.
A settanta chilometri dall’Ilva, a Brindisi, c’è un altro dei siti d’interesse nazionale (Sin) che fa tremare gli esperti. Comprende la zona industriale della città, il porto e una fascia costiera che si estende per 30 chilometri quadrati. Qua sorge la Syndial, la Polimeri d’Europa, l’Enipower, la Powerco, senza dimenticare le due enormi centrali dell’Enel, campioni nazionali dell’emissione di CO2.
Gli studi in mano agli scienziati sono scioccanti. La mortalità per l’area di Brindisi è stata analizzata nel periodo 1990-1994, quando vennero segnalati eccessi di mortalità per tutte le cause e per tutti i tipi di tumore. Un report più recente, pubblicato nel 2004, riguardo l’area residenziale vicino al petrolchimico: i risultati evidenziarono un incremento “moderato” nel rischi di mortalità per tumore del polmone, della vescica e del sistema linfoematopoietico per chi risiedeva in un raggio di due chilometri dalle zone inquinanti.
Nell’area della Syndial (ex Enichem) che nel 1976 finì sulle prime pagine dei giornali per un’esplosione che provocò una nube tossica di arsenico. Dieci tonnellate di veleni caddero sotto forma di polveri, come ricorda la commissione bicamerale, “nei pressi dello stabilimento e fino alla periferia” di Manfredonia, ricoprendo i tetti delle case, le strade, i campi e i giardini.
Il quarto sito nazionale è quello di Bari, area Fibronit. Qui l’assassino è l’amianto che ha ucciso negli anni (per asbestosi, tumori e malattie dell’apparato respiratorio) centinaia di persone, gli operai che andavano a lavoro, le mogli che venivano in contatto con le polveri nascoste nelle tute di lavoro, i figli che le respiravano. La fabbrica ha chiuso da lustri, ma incredibilmente ci sono ancora migliaia di metri quadri da bonificare, con residui di eternit che rischiano di far ammalare, oggi, gli abitanti dei quartieri vicini.”
Non penso basti continuare a descrivere ancor più minuziosamente quanto su già riportato, basta piuttosto pensare che con progetti semplici ed efficaci, come la bonifica attraverso le piantagioni di canapa, data la vasta estensione di terreno del posto e il clima favorevole, favorirebbero il processo di decontaminazione o quanto meno aiuterebbero ad assorbire le drastiche conseguenze che l’inquinamento ha portato in tutti questi anni.
Per spiegarvi brevemente il processo di bonifica, prendo come esempio un allevatore della provincia di Taranto, che a causa dell’inquinamento del terreno fu costretto ad abbattere circa duemila pecore, a causa della contaminazione da diossina, generata probabilmente dal vicino polo industriale.
Grazie all’aiuto e all’incontro con Andrea Carletti, socio di Assocanapa e presidente del consiglio di amministrazione dell’impresa agricola “Le terre del Sole”, aveva destinato 12 ettari di terreno alla coltivazione di una particolare varietà francese, “Futura 75”, un incrocio di semi a bassissimo contenuto di THC (circa lo 0.2%).
Un progetto sperimentale che sicuramente avrebbe portato risultati positivi, considerate le notevoli proprietà della pianta.
La cannabis infatti funge quasi come una pompa, in grado di assorbire dal terreno le sostanze inquinanti e i metalli pesanti, stoccandoli poi nelle foglie e nel busto.
Questo processo viene chiamato fitodegradazione.
A supportare ciò, il sig. Angelo Massacci, direttore dell’Istituto di biologia agroambientale e forestale del Cnr di Porano spiega: “Le piante hanno evoluto efficienti sistemi di difesa e tolleranza verso gli inquinanti del suolo. Alcune specie vegetali, dette “escludenti”, riescono a evitare l’effetto tossico dei metalli pesanti in eccesso, preservano i frutti e le parti edibili ed eliminano il rischio di diffusione nella catena alimentare. Altre, definite “iperaccumulatrici”, sono invece capaci di assorbire e immagazzinare nei propri tessuti quantità di metalli pesanti da decine a migliaia di volte superiori a quelle tollerate da altri organismi.”
La stessa strada dell’allevatore tarantino è stata percorsa anche da altri allevatori provenienti dalla provincia di Brindisi e Bari. Le coltivazioni, pian piano, sembrano diffondersi a macchia d’olio dato il forte interesse di alcune persone verso il progetto. Sicuramente una scelta fatta per evitare la morte di una terra ormai divenuta inservibile a scopo alimentare (vedi la xilella per gli alberi di ulivo).
Tutto questo deve farci riflettere, poiché non abbiamo molto tempo a nostra disposizione.
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